Bruno D’Amicis - Alla scoperta dell'Altopiano dei Sette Comuni, Veneto



















100 anni sembrano davvero tanti. Quattro lustri, tre generazioni. Un’infinità di tempo…
Eppure, quando, pochi giorni fa, ho messo piede per la prima volta sulla sommità del Monte Ortigara, nell’Altipiano di Asiago (o "dei 7 Comuni"), nelle Prealpi Vicentine, durante la mia missione per L’Altro Versante, ho capito che un secolo, in fondo, non è che un attimo… Esattamente 98 anni fa, questa montagna e le brulle cime circostanti sono state teatro di una delle battaglie più sanguinose e disastrose del Primo Conflitto Mondiale. Qui, infatti, tra soldati italiani e austriaci, hanno perso la vita in pochi giorni non meno di 20.000 uomini. La cima stessa dell’Ortigara (oggi 2105 m s.l.m.) si è “abbassata” di ben 8 metri a causa dei continui bombardamenti. Il tentativo mal gestito da parte dell’esercito italiano di recuperare terreno dopo la “spedizione punitiva” degli Austriaci si concluse con uno dei capitoli più nefasti della storia italiana del XX secolo. 
Ora, questa montagna e i suoi dintorni sono un monumento internazionale, un ecomuseo. Le tracce della guerra: schegge e proiettili, ma soprattutto trincee, cannoniere, baraccamenti sono ancora ben visibili nel paesaggio lunare di quest’altipiano carsico, che, ancora non sembra aver dimenticato l’orrore di quei giorni. 
Devo dire che da queste parti si percepisce una strana atmosfera, un’aria pesante, nonostante la bellezza degli scenari. Solo il vento, infatti, si fa sentire mentre spazza i brulli affioramenti rocciosi, circondati da fitte mughete e da qualche larice stentato. In lontananza, a fatica, ogni tanto si riesce a cogliere il canto del merlo dal collare e magari il fischio delle marmotte. Alcune di queste, pensate un po’, hanno scavato le loro tane nei rifugi della guerra. E, il loro andirivieni, insieme al rosa delle fioriture di rododendri smorza un poco il senso di tristezza che pervade questo luogo, che rimane tuttavia particolare e affascinante. Camminando tra le rocce, tornano costantemente in mente le parole commosse scritte dal grande Mario Rigoni Stern, vero “spirito del luogo”:

“Un giorno di maggio del 1920 tre ragazzi salirono verso l’Ortigara per il Sentiero del Civeron prima e per il Passo di Val Caldiera poi. Arrivati dove il sentiero lascia i precipizi della Valsugana per immettersi sull’Altipiano, davanti ai loro occhi si presentò una orrenda visione: tra le rocce giallastre e sbriciolate, tra lenzuola di neve sporca, tra reticolati aggrovigliati a perdita d’occhio, resti di trincee e di postazioni, caverne, brandelli di divise, elmetti sfondati, scarpe, armi rotte, gavette, zaini, maschere antigas, munizioni di ogni tipo, barattoli, casse, schegge di bombe d’ogni calibro, stavano sotto il cielo primaverile centinaia e centinaia di cadaveri in decomposizione, scheletri, teschi, membra umane, ossa. E non un filo d’erba, non un fiore, non il canto di un uccello”.

Da “Amore di confine”, “Il mortaio del primotenente Hans Stiegland”

Nell’esplorazione dell’enorme Altopiano di Asiago, sono stato guidato da due buoni amici, Bruno Boz, biologo e fotografo di Feltre, a cui va tutta la mia riconoscenza per avermi aiutato nell’organizzazione della mia prima missione nel “Nord Est” e Ivan Mosele, fotografo di Asiago nonché grandissimo appassionato e conoscitore della natura dell’Altopiano, che ci ha fatto da Cicerone nei due giorni trascorsi insieme. Senza il sostegno del Comune di Asiago, poi, che ha autorizzato a lavorare nella zona e ad accedervi in auto, saremmo riusciti a fare ben poco, a causa del grande carico di attrezzature e della vastità dell’area.
Quest’angolo di Altopiano infatti non è per niente facile da fotografare. Siamo saliti sull’Ortigara e Campigoletti purtroppo nei due dei giorni più afosi e umidi di questa strana primavera 2015. Il cielo perennemente coperto e la foschia all’orizzonte pertanto non facevano sperare molto. In quelle condizioni i pendii di queste montagne erano delle semplici bande monocromatiche, il paesaggio piatto e senza punti di riferimento. Questo è il rischio che si corre quando si ha poco tempo da dedicare a un luogo, in un progetto così ambizioso e vasto come L’Altro Versante. Sforzandomi di non cadere mai nella disperazione, ho cercato davvero a lungo un angolo “fotogenico”, guardandomi attorno per ore, prima di estrarre l’attrezzatura. Alla fine sono concentrato su uno strano “campo carreggiato”, tipico affioramento roccioso calcareo solcato nei millenni dalle intemperie, come ce ne sono tanti anche in Appennino eppure davvero peculiare per le forme tondeggianti e i piccoli larici che vi emergevano. Una volta individuato il luogo, la fortuna ha girato dalla nostra parte. Prima c’é stato l’emozionante incontro con un bellissimo maschio di pernice bianca (poco bianca, a dire il vero, in questi giorni di primavera), mirabilmente mimetizzato nell’ambiente e localizzabile solamente grazie al verso rauco e inconfondibile. È stato il secondo appuntamento della mia vita con questo meraviglioso tetraonide, che per un “appenninico” come me, è animale esotico tanto quanto un bue muschiato… Poi, al tramonto, finalmente si è aperto uno spiraglio in cielo e la luce radente del sole ha premiato la nostra pazienza, regalandoci alcuni istanti magici e l’opportunità, mi auguro, di aver reso un minimo di giustizia fotografica all’importanza di questo luogo.

L’indomani mattina, all’alba, invece, ci siamo dedicati all’esplorazione di un bosco bellissimo, sempre sull’Altopiano dei Sette Comuni/Asiago. Nonostante la luce scadente e il cielo che minacciava pioggia, sono rimasto senza parole al cospetto di abeti bianchi, larici e faggi dalle dimensioni davvero imponenti. Con il naso in su, ho ammirato l’altezza di questi patriarchi e cercato di trasmetterne in foto un po’ la bellezza, ma ci sarebbe voluta una bella nebbiolina per rendere omaggio all’aura di questo vero “bosco degli urogalli”. Ovunque, i buchi scavati dal picchio nero e visioni sfuggenti di cervi e caprioli. Ho scoperto una traccia di martora, l'escremento di un gallo cedrone e giuro di aver sentito anche l’astore che chiamava. Però, il vero gioiello di questi boschi non va cercato in alto, bensì guardando con attenzione in basso, nell'umida lettiera, tra verdi muschi e legno marcescente.
Ai piedi di questi alberi secolari, ahimè assurdamente minacciati da tagli e invasive operazioni di esbosco, vive uno degli animali più rari e belli della fauna italiana. Con un'areale grande poco più di venti chilometri quadrati, la Salamandra di Aurora (Salamandra atra aurorae) è un po' il Santo Graal dell'erpetologia europea. La storia racconta che lo studioso Pierluigi Trevisan, che per primo ha descritto questa (sotto)specie, abbia dedicato la scoperta alla sua moglie Aurora. Questo splendido anfibio dai toni dorati vive solo qui in tutto il mondo e il ridotto numero di esemplari impone il massimo riserbo sulla condivisione di siti e abitudini. Troppi malintenzionati ne sono alla ricerca per arricchire le proprie collezioni e il suo habitat è davvero fragile. Il futuro è incerto per questa salamandra, ma per fortuna, ci sono dei paladini che si battono per la sua salvaguardia. Tra questi, l'erpetologo Enrico Romanazzi, che si dedica con anima e corpo non solo allo studio attento e alla conservazione di questo animale, ma, cosa rara tra i biologi, si occupa con impegno anche di divulgazione e educazione dei bambini. Ho avuto il privilegio di accompagnare Enrico e Sara, la sua collega, durante uno dei loro regolari campionamenti avendo immediatamente l'impressione di trovarmi di fronte a due persone d'eccezione. I veri eroi, infatti, non hanno bisogno di urlare a gran voce le proprie idee o sbandierare i propri successi, ma si muovono nell'intricata realtà umana in silenzio e con abnegazione, lasciando che siano i fatti a parlare per loro.
Come con Bruno e Ivan, anche con Enrico e Sara, la passione comune ha fatto sì che l'amicizia scattasse all'istante. Poi, è bastato un semplice sorriso da bambino per dimostrare tutta la mia riconoscenza, quando finalmente il mio sguardo si è posato sulla livrea color crema di questo piccolo, grande gioiello dell'Altopiano. Uno dei tanti incontri meravigliosi e indimenticabili che stiamo collezionando lungo il cammino per arrivare a L'Altro Versante.

 



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