Luciano Gaudenzio - L'immagine raccontata: Tre Cime insolite?, Dolomiti di Sesto, Alto Adige



La nostra missione è fotografare luoghi poco conosciuti per valorizzarli. Fotografare luoghi celeberrimi, invece, perché? Noi de L'Altro Versante ci siamo chiesti più volte se per il nostro progetto avesse un senso fotografare nuovamente luoghi considerati come "icone" della montagna italiana. Ogni qual volta ne abbiamo discusso, immancabilmente il nome delle Tre Cime di Lavaredo veniva preso ad esempio. Alla fine ci siamo convinti che anche queste celebrità andassero in qualche modo riscoperte, ma come? Sotto una luce nuova? Cercando inquadrature particolari? In condizioni meteorologiche diverse?

Conosco la zona delle Tre Cime da tanto, tantissimo tempo. Ancora prima di essere un fotografo, infatti, la frequentavo come semplice appassionato di natura e trekker. Quante salite, quante notti passate nei diversi rifugi della zona: dal Comici al Carducci, dal Pian di Cengia al più conosciuto Locatelli! Poi, sono arrivate le prime immagini. Le Tre Cime illuminate al tramonto, un immancabile classico della fotografia di paesaggio. Sembra quasi che quei tre "fratelloni" di dolomia siano emersi in una posizione geografica e con un'inclinazione tali da essere baciati perfettamente dagli ultimi raggi del sole. Per curiosità, sono tornato a sfogliare i plasticoni dove sono archiviate le mie vecchie diapositive e ho contato almeno 200 immagini, che raccontano dei tramonti infuocati e delle cime perfettamente illuminate, contornate da nuvolette rosa, che ho potuto ammirare negli anni.
Torno sempre volentieri da queste parti, possibilmente fuori stagione. Maggio e giugno sono mesi bellissimi per visitarle: sui ghiaioni ci sono ancora i segni bianchi dell'inverno.
Fotografare questo affascinante luogo in modo diverso è però molto difficile. l primi due tentativi, infatti, sono falliti. Luce perfetta il primo giorno: immagini tuttavia uguali a quelle che compaiono nei magneti da frigorifero che si vedono giù, al Lago di Misurina. Il secondo tentativo è stato durante una giornata che promette bene, ovvero una di quelle in cui la variabilità del tempo lascia auspicare luci inattese. Ho atteso la fine di un temporale, con fulmini a ripetizione sul Lago di Misurina. Poi mi sono incamminato verso il Sasso di Sesto e ancora oltre, in una zona caratterizzata dai resti della Grande Guerra. Aspetto, aspetto, ancora e ancora, finché il cielo così promettente si è tinto di un grigio senza speranza.

La terza volta, invece, sono tornato in compagnia di un caro amico, la giornata era veramente splendida. Poi, come succede tantissime volte in montagna, all'improvviso densi nuvoloni neri si sono affacciati all'orizzonte. Provenivano dalla Val Pusteria, da Dobbiaco. Abbiamo deciso comunque di proseguire verso il punto di ripresa concordato. Nel cielo le nuvole correvano velocissime. Si alternavano quelle cariche di pioggia, di un plumbeo intenso, a quelle dall'aspetto più innocuo, bianche e cremose. Anche la luce sembrava impazzire: raggi di sole si insinuavano tra le nubi per colorare la dolomia. Non sapevamo più dove guardare né cosa inquadrare. La situazione era davvero interessante, ma i lampi dei fulmini, attorno a noi e le prime gocce di pioggia ci preoccupavano non poco. Il cielo ha cominciato a tingersi di giallo con venature magenta. Cercavamo di proteggere l'attrezzatura dalle raffiche di pioggia portate dal vento. Poi, tutto a un tratto, il cielo vivido di luce, si è spento. Il temporale si è spostato verso i Cadini di Misurina.

Forse nemmeno questa è ancora l'immagine che ho in mente per celebrare queste magnifiche montagne. Ci tornerò sicuramente per realizzarla, anche se forse, la foto perfetta non arriverà mai. Perché anche le montagne più famose d'Italia indossano ogni giorno una veste nuova e unica, che invita a riscoprirle ancora una volta.








Bruno D'Amicis - L'immagine raccontata: feeling blue, PN Dolomiti Bellunesi, Veneto


Si dice che nella fotografia naturalistica, il tempismo sia tutto. Cogliere l'attimo saliente di un'azione, il momento giusto dell'anno per documentare un fenomeno biologico particolare o la luce più suggestiva per rendere magica una composizione... Non c'è niente di più vero, tutti gli sforzi per cercare e inquadrare un soggetto diventano vani, infatti, se non si sceglie la situazione adatta per valorizzare l'immagine.

Questo monito mi tornato in mente pochi giorni fa durante la mia ultima missione nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi in Veneto. Tra i siti selezionati per l'Altro Versante, ho visitato la bellissima località dei "Piani Eterni" tra Belluno e Feltre. Questo strano altopiano, quasi un cratere circondato da alte montagne, è un posto a sé. Un po' Canada, un po' Appennino, è un mare d'erba tra i mughi e gli affioramenti rocciosi. Come tutti i luoghi che si sviluppano in piano non è un sito facile da fotografare e, inoltre, un nome così importante, "Piani Eterni" richiede un minimo di attenzione in più per dare giustizia al "senso del luogo".

Dopo una lunga camminata per arrivare alla malga che ci avrebbe ospitato per tre giorni, mi sono messo ad esplorare i dintorni. Ero stato colpito dai campi carreggiati e dai massi erratici, testimoni silenziosi di un passato glaciale e turbolento, che caratterizzavano un lato dei Piani. Avevo provato varie inquadrature, ma quella che mi convinceva di più vedeva le rocce in primo piano condurre lo sguardo verso un grosso masso lasciato lì dalla forza dei ghiacciai. L'immagine non era male, ma l'afa di quella serata non aveva permesso un tramonto avvincente e così mi ero dovuto accontentare di una fotografia piuttosto standard, dai toni abbastanza piatti.

Due giorni dopo, all'alba, che a giugno, diventa una cosa tosta da gestire e vuol dire alzarsi prima delle quattro del mattino, la bruma riempiva la conca erbosa. Ancora prima di prendere il caffè sono uscito e ho ammirato una mezzaluna che brillava sopra i colori cilestrini di quello scenario mattutino.
È stato un attimo. Senza dire nulla agli altri, ho preso fotocamera, grandangolo e treppiedi e sono corso nella nebbia a ricercare quello stesso masso e un'inquadratura simile a quella scattata il primo giorno.

Stavolta le montagne erano di un blu intenso e i confini meno definiti e scontati. Mi sono concesso qualche scatto e via, poiché mi attendeva una lunga esplorazione su un'altra montagna. Non c'era stato molto tempo per sperimentare, ma almeno avevo messo da parte una fotografia che portasse in sé un minimo dell'"eternità" di quel posto così particolare.



Bruno D’Amicis - Alla scoperta dell'Altopiano dei Sette Comuni, Veneto



















100 anni sembrano davvero tanti. Quattro lustri, tre generazioni. Un’infinità di tempo…
Eppure, quando, pochi giorni fa, ho messo piede per la prima volta sulla sommità del Monte Ortigara, nell’Altipiano di Asiago (o "dei 7 Comuni"), nelle Prealpi Vicentine, durante la mia missione per L’Altro Versante, ho capito che un secolo, in fondo, non è che un attimo… Esattamente 98 anni fa, questa montagna e le brulle cime circostanti sono state teatro di una delle battaglie più sanguinose e disastrose del Primo Conflitto Mondiale. Qui, infatti, tra soldati italiani e austriaci, hanno perso la vita in pochi giorni non meno di 20.000 uomini. La cima stessa dell’Ortigara (oggi 2105 m s.l.m.) si è “abbassata” di ben 8 metri a causa dei continui bombardamenti. Il tentativo mal gestito da parte dell’esercito italiano di recuperare terreno dopo la “spedizione punitiva” degli Austriaci si concluse con uno dei capitoli più nefasti della storia italiana del XX secolo. 
Ora, questa montagna e i suoi dintorni sono un monumento internazionale, un ecomuseo. Le tracce della guerra: schegge e proiettili, ma soprattutto trincee, cannoniere, baraccamenti sono ancora ben visibili nel paesaggio lunare di quest’altipiano carsico, che, ancora non sembra aver dimenticato l’orrore di quei giorni. 
Devo dire che da queste parti si percepisce una strana atmosfera, un’aria pesante, nonostante la bellezza degli scenari. Solo il vento, infatti, si fa sentire mentre spazza i brulli affioramenti rocciosi, circondati da fitte mughete e da qualche larice stentato. In lontananza, a fatica, ogni tanto si riesce a cogliere il canto del merlo dal collare e magari il fischio delle marmotte. Alcune di queste, pensate un po’, hanno scavato le loro tane nei rifugi della guerra. E, il loro andirivieni, insieme al rosa delle fioriture di rododendri smorza un poco il senso di tristezza che pervade questo luogo, che rimane tuttavia particolare e affascinante. Camminando tra le rocce, tornano costantemente in mente le parole commosse scritte dal grande Mario Rigoni Stern, vero “spirito del luogo”:

“Un giorno di maggio del 1920 tre ragazzi salirono verso l’Ortigara per il Sentiero del Civeron prima e per il Passo di Val Caldiera poi. Arrivati dove il sentiero lascia i precipizi della Valsugana per immettersi sull’Altipiano, davanti ai loro occhi si presentò una orrenda visione: tra le rocce giallastre e sbriciolate, tra lenzuola di neve sporca, tra reticolati aggrovigliati a perdita d’occhio, resti di trincee e di postazioni, caverne, brandelli di divise, elmetti sfondati, scarpe, armi rotte, gavette, zaini, maschere antigas, munizioni di ogni tipo, barattoli, casse, schegge di bombe d’ogni calibro, stavano sotto il cielo primaverile centinaia e centinaia di cadaveri in decomposizione, scheletri, teschi, membra umane, ossa. E non un filo d’erba, non un fiore, non il canto di un uccello”.

Da “Amore di confine”, “Il mortaio del primotenente Hans Stiegland”

Nell’esplorazione dell’enorme Altopiano di Asiago, sono stato guidato da due buoni amici, Bruno Boz, biologo e fotografo di Feltre, a cui va tutta la mia riconoscenza per avermi aiutato nell’organizzazione della mia prima missione nel “Nord Est” e Ivan Mosele, fotografo di Asiago nonché grandissimo appassionato e conoscitore della natura dell’Altopiano, che ci ha fatto da Cicerone nei due giorni trascorsi insieme. Senza il sostegno del Comune di Asiago, poi, che ha autorizzato a lavorare nella zona e ad accedervi in auto, saremmo riusciti a fare ben poco, a causa del grande carico di attrezzature e della vastità dell’area.
Quest’angolo di Altopiano infatti non è per niente facile da fotografare. Siamo saliti sull’Ortigara e Campigoletti purtroppo nei due dei giorni più afosi e umidi di questa strana primavera 2015. Il cielo perennemente coperto e la foschia all’orizzonte pertanto non facevano sperare molto. In quelle condizioni i pendii di queste montagne erano delle semplici bande monocromatiche, il paesaggio piatto e senza punti di riferimento. Questo è il rischio che si corre quando si ha poco tempo da dedicare a un luogo, in un progetto così ambizioso e vasto come L’Altro Versante. Sforzandomi di non cadere mai nella disperazione, ho cercato davvero a lungo un angolo “fotogenico”, guardandomi attorno per ore, prima di estrarre l’attrezzatura. Alla fine sono concentrato su uno strano “campo carreggiato”, tipico affioramento roccioso calcareo solcato nei millenni dalle intemperie, come ce ne sono tanti anche in Appennino eppure davvero peculiare per le forme tondeggianti e i piccoli larici che vi emergevano. Una volta individuato il luogo, la fortuna ha girato dalla nostra parte. Prima c’é stato l’emozionante incontro con un bellissimo maschio di pernice bianca (poco bianca, a dire il vero, in questi giorni di primavera), mirabilmente mimetizzato nell’ambiente e localizzabile solamente grazie al verso rauco e inconfondibile. È stato il secondo appuntamento della mia vita con questo meraviglioso tetraonide, che per un “appenninico” come me, è animale esotico tanto quanto un bue muschiato… Poi, al tramonto, finalmente si è aperto uno spiraglio in cielo e la luce radente del sole ha premiato la nostra pazienza, regalandoci alcuni istanti magici e l’opportunità, mi auguro, di aver reso un minimo di giustizia fotografica all’importanza di questo luogo.

L’indomani mattina, all’alba, invece, ci siamo dedicati all’esplorazione di un bosco bellissimo, sempre sull’Altopiano dei Sette Comuni/Asiago. Nonostante la luce scadente e il cielo che minacciava pioggia, sono rimasto senza parole al cospetto di abeti bianchi, larici e faggi dalle dimensioni davvero imponenti. Con il naso in su, ho ammirato l’altezza di questi patriarchi e cercato di trasmetterne in foto un po’ la bellezza, ma ci sarebbe voluta una bella nebbiolina per rendere omaggio all’aura di questo vero “bosco degli urogalli”. Ovunque, i buchi scavati dal picchio nero e visioni sfuggenti di cervi e caprioli. Ho scoperto una traccia di martora, l'escremento di un gallo cedrone e giuro di aver sentito anche l’astore che chiamava. Però, il vero gioiello di questi boschi non va cercato in alto, bensì guardando con attenzione in basso, nell'umida lettiera, tra verdi muschi e legno marcescente.
Ai piedi di questi alberi secolari, ahimè assurdamente minacciati da tagli e invasive operazioni di esbosco, vive uno degli animali più rari e belli della fauna italiana. Con un'areale grande poco più di venti chilometri quadrati, la Salamandra di Aurora (Salamandra atra aurorae) è un po' il Santo Graal dell'erpetologia europea. La storia racconta che lo studioso Pierluigi Trevisan, che per primo ha descritto questa (sotto)specie, abbia dedicato la scoperta alla sua moglie Aurora. Questo splendido anfibio dai toni dorati vive solo qui in tutto il mondo e il ridotto numero di esemplari impone il massimo riserbo sulla condivisione di siti e abitudini. Troppi malintenzionati ne sono alla ricerca per arricchire le proprie collezioni e il suo habitat è davvero fragile. Il futuro è incerto per questa salamandra, ma per fortuna, ci sono dei paladini che si battono per la sua salvaguardia. Tra questi, l'erpetologo Enrico Romanazzi, che si dedica con anima e corpo non solo allo studio attento e alla conservazione di questo animale, ma, cosa rara tra i biologi, si occupa con impegno anche di divulgazione e educazione dei bambini. Ho avuto il privilegio di accompagnare Enrico e Sara, la sua collega, durante uno dei loro regolari campionamenti avendo immediatamente l'impressione di trovarmi di fronte a due persone d'eccezione. I veri eroi, infatti, non hanno bisogno di urlare a gran voce le proprie idee o sbandierare i propri successi, ma si muovono nell'intricata realtà umana in silenzio e con abnegazione, lasciando che siano i fatti a parlare per loro.
Come con Bruno e Ivan, anche con Enrico e Sara, la passione comune ha fatto sì che l'amicizia scattasse all'istante. Poi, è bastato un semplice sorriso da bambino per dimostrare tutta la mia riconoscenza, quando finalmente il mio sguardo si è posato sulla livrea color crema di questo piccolo, grande gioiello dell'Altopiano. Uno dei tanti incontri meravigliosi e indimenticabili che stiamo collezionando lungo il cammino per arrivare a L'Altro Versante.

 



Maurizio Biancarelli- Sui Monti Alburni-Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, Campania




Nuvole basse scivolano sui crinali degli Alburni
Dopo due giorni di caldo africano, con temperature da piena estate e cieli lattiginosi che non concedono la minima possibilità fotografica, il morale è così basso che la voglia di vedere un’altra parte del parco si fa impellente e sembra l’unica soluzione. Ammesso che nel frattempo il tempo si decida a cambiare.
Rapida consultazione con Bruno e poi, di comune accordo, si lascia la parte più interna e si va verso gli Alburni. Il viaggio nelle strette strade tortuose di montagna è lento ma piacevole, si scende di quota per poi risalire in direzione di  Petina e Sicignano, due paesi posti alle falde della imponente catena di queste sorprendenti montagne. 
La ricchezza di verde ci colpisce. Mentre guido un occhio va, come sempre, agli alberi che costeggiano la strada: aceri, faggi, carpini bianchi e persino tigli sbucano dai bordi della carreggiata e allungano le fronde regalando ombra e frescura e dandoci subito un indizio sulla ricca varietà di specie presenti. 
Commentiamo positivamente e l’umore è già salito rispetto ai giorni precedenti.
Appena arrivati scendiamo a Petina, prendiamo qualche provvista e utili informazioni per salire in montagna, godendoci il bel centro storico del piccolo paese. Rimaniamo poco però, la voglia di salire e fotografare è pressante.
La salita comincia con una stretta stradina asfaltata che serpeggia nel mezzo di un bel castagneto, presto sostituito da grandi faggi ricoperti di licheni. Rimaniamo impressionati dalla loro bellezza, e siamo sempre più spronati ad andare avanti ed esplorare. Nostra meta sono il vertiginoso pinnacolo calcareo del Figliolo e la vetta  rocciosa tondeggiante del Monte Alburno, la cima più elevata della catena.

Nel cuore della faggeta
Prima però dobbiamo trovare l’imbocco del sentiero, che poi si rivela una stradina sterrata e, subito dopo, un luogo idoneo per la sosta col camper. È quasi l’una e la fame si fa sentire. 
Scegliamo di fermarci in una bella, ampia radura, nella quale troneggia un osservatorio astronomico che non pare molto utilizzato e un’altra costruzione, meglio dire lo scheletro di una costruzione, mai ultimata. Inevitabile amara considerazione sull’inutile sperpero e sullo stravolgimento del paesaggio. Possibile che dappertutto si debba trovare qualcosa che non va? Frustrante, ma la bellezza intorno prevale e compensa, per fortuna, la bruttura e l’ottusità di certe azioni dell’uomo. 
Mangiamo e poi decidiamo che una sana pennichella è d’obbligo prima di iniziare la salita pomeridiana. 
Io dormo nel camper, Bruno sotto l’ombra di un pero selvatico di dimensioni mai viste, un vero gigante ricoperto di fiori candidi. E non è solo, intorno ne vediamo diversi altri. 
Facciamo considerazioni sulle straordinarie potenzialità di questo luogo, bellissimo (a parte lo scempio edilizio) e adatto alla presenza di tutta la fauna appenninica, orso 
compreso.
Lobaria pulmonaria
Dopo il risveglio e il caffè, a metà pomeriggio, inizia la salita verso le nostre mete.
C’è un fascino sottile nel percorrere itinerari ignoti, la mente corre più veloce dei passi cercando di immaginare lo spettacolo che ci apparirà quando saremo lassù, nel luogo prescelto. Sono sicuro che i miei pensieri e quelli di Bruno si assomigliano mentre avanziamo. 
Ogni tanto ci scambiamo qualche impressione, mi colpisce in particolare la presenza di aceri campestri che formano piccole boscaglie pure. I tronchi sono letteralmente invasi dal grande tallo del lichene Lobaria pulmonaria, un ottimo indicatore biologico. In regresso da tempo in tutta Europa a causa dell’inquinamento e della frammentazione delle foreste, la sua presenza massiccia in quest’area conforta sulla purezza dell’aria e sullo stato di naturalità dei boschi. Mi rallegro, è uno dei miei licheni preferiti e non ne ho mai visti in tale abbondanza.
Quando giungiamo alla nostra destinazione, una terrazza rocciosa in posizione strategica, la vista verso il Figliolo e il Monte Alburno ci riempie gli occhi ma il tempo è grigio e sta peggiorando: nuvole alte nel cielo e, a quote medie, altre nuvole che il vento spinge verso di noi. Per il  momento sono lontane, ma è facile prevedere quello che succederà a breve. 
Non passa molto e ci troviamo avvolti da una nebbia fitta, che va e viene. Aspettiamo nella speranza che la cortina si sollevi una volta per tutte, concedendoci di nuovo il panorama sospirato. Cerchiamo di ingannare il tempo con qualche chiacchiera, facendo qualche passo per scaldarci, quand’ecco che riceviamo una visita inaspettata: un forestale in servizio ci raggiunge sulla nostra postazione. È incuriosito dalla nostra presenza e da quello che facciamo; riceve tutte le informazioni e ci aggiorna a sua volta, raccontandoci storie sui luoghi. È interessato al progetto, vuole saperne di più e promette di seguirlo. Questo ci fa piacere.


Il Figliolo e, sullo sfondo, il Monte Alburno al tramonto
Il tempo ora passa in maniera più gradevole e, lentamente, arriviamo in prossimità del tramonto. 
Il nostro visitatore se ne è andato da un po' quando il cielo inizia piano piano a colorarsi e, dopo qualche minuto, fasci di luce rossa sbucano tra le nuvole. Dopo tanto grigio non crediamo ai nostri occhi, una vera e propria raggiera circonda la vetta del Monte Alburno, sembra un effetto speciale creato artificialmente, ma è la realtà e dura un tempo che sembra infinito, come nelle migliori occasioni. 
Nessuno ci crederà, penseranno a Photoshop, sono le inevitabili battute. 
Sotto, nel frattempo, uno spesso strato di nebbia aleggia sulla vallata e nasconde le luci di paesini lontani. Scattiamo sino alle soglie della notte e poi, con l’aiuto delle lampade frontali, torniamo al camper, soddisfatti e carichi di emozione. 
La giornata non poteva finire meglio e, anche se stanchi, siamo pronti per l'alba del giorno che verrà.

Un mare di nebbia indugia sulle vallate all'alba