Bruno D'Amicis - La Cipresseta di Fontegreca sul Matese, Campania


Se c’è una cosa per cui io amo così tanto il lavoro per L’Altro Versante è la libertà di scegliere in autonomia le missioni e l’opportunità di scoprire posti assolutamente sconosciuti.
Voi, per caso, avevate mai sentito parlare della Cipresseta di Fontegreca? O, magari, del "Bosco dei Zappini”? No??! Beh, non allarmatevi. Non ne sapevo nulla nemmeno io fino a quando non mi sono messo a raccogliere informazioni sul misterioso massiccio del Matese in vista della mia missione AV.... 
Placidamente ingombrante tra due regioni e tre province, questa imponente montagna segna il passaggio dall’Appennino centro-settentrionale a quello meridionale. Siamo a meno di duecento chilometri da Roma, ma si capisce subito che è tutto un altro mondo. E’ un mondo italico, pre-romano, da Sanniti e Irpini. Un mondo di lupi, creste spazzate dai venti, pastori solitari e fredde faggete. Ma anche di macchia mediterranea e solarità tirrenica. L’Appennino che è già meridione e regno della luce, pur essendo ancora soggetto ai capricci dell’altitudine.

Tra i luoghi che ho scelto di visitare per primi per rappresentare il Matese, c'è la cipresseta di Fontegreca sul versante campano del Massiccio. Una sorprendente foresta spontanea di cipressi, che adorna la forra del torrente Sava appena fuori del piccolo borgo e di cui si ha conoscenza da almeno cinquecento anni! In tanti si sono chiesti da dove venissero questi alberi e numerosi studiosi si avvicendano qui addirittura dal Seicento. Se dico cipressi, mi raccomando, non pensate a quelli del Carducci a Bolgheri o delle scenografiche colline senesi o, tantomeno, agli alberi dei cimiteri! Pensate invece a dignitose conifere dalle bellissime fronde verde-smeraldo e il tronco color cappuccino. Gli “zappini”, come sono chiamati da queste parti, forse in ricordo del francese “sapin” (che però vuol dire abete...), crescono qui selvatici e silenziosi. Liberi di morire e, quando il vento, il peso dell’edera o dell’età li fa crollare, di ostruire il corso del Sava. Tanti tronchi coperti di verdi muschi, fluorescenti nelle giornate più umide, e che contrastano con l'azzurro intenso delle piscine e delle cascatelle del torrente. Scenari da Plitivice in miniatura ma che fanno dimenticare i recenti fatti di cronaca, per cui si è parlato di inquinamento del Sava da fanghi di depurazione: un vero scempio.


Superati i tavoli da picnic, le passerelle e qualche intervento di “valorizzazione turistica” non proprio leggero, la forra del Sava si restringe e diventa ripida e scivolosa; il cammino arduo e soggettivo. Ci si perde tra rocce aguzze, radici, ellebori e odore di resina. Il rombo del torrente sovrasta sempre il suono del nostro affanno, ma non il verso acuto del merlo acquaiolo. L’occhio cerca ardite composizioni e ordine in un sano caos. La cipresseta di Fontegreca si estende solamente per una settantina ettari e sarà sì un puntino sulla carta d'Italia, ma il suo rapporto selvaticità/dimensioni è  sorprendente.  

  



Maurizio Biancarelli-Parco regionale del Monte Cucco, Umbria




Nel cuore del Monte Cucco, in Umbria, il dio Vulcano aveva una vera e propria officina ben nascosta e attrezzata di tutto punto per forgiare armi. Almeno questo è quello che racconta la leggenda.
Quando Giove gli ordinò una spada, Vulcano pensò bene di sperimentare la bontà della lama facendo in due pezzi, con un sol colpo ben assestato, la solida parete verticale calcarea di quella che oggi conosciamo col nome di Spaccatura o Balza delle Lecce. Vertiginoso slancio di roccia candida, alta fino 70 metri e punteggiata di vegetazione rara, come l’ alloro (Laurus nobilis), relitto del Terziario, e il bosso (Buxus sempervirens). 
Il torrente Gorghe, con le sue acque cristalline scorre in mezzo alla stretta valle che è ricoperta da un bel bosco misto con presenza di lecci, aceri, ornielli, carpini e querce. Un gran bel posto, uno dei luoghi da non perdere in questo parco regionale e un sito di importanza comunitaria per le sue caratteristiche naturalistiche e paesaggistiche.  
Per L’Altroversante ho voluto fotografarlo in veste autunnale quando la varietà delle specie presenti nel bosco crea una vera tavolozza di colori, dal giallo ai rossi, che contrasta col verde cupo dei lecci. L’ho trovato al meglio di sé agli inizi di novembre, di ritorno dalla missione sull’Adamello-Brenta. Le faggete avevano ormai perso le foglie, era troppo tardi, ma a quota bassa la stagione era nel suo momento magico.
Quando poi, all’inizio di febbraio, l’inverno ha deciso di mostrare, dopo mesi di latitanza, il suo vero volto con una bella nevicata, ho preso la macchina e sono salito di nuovo verso le rocce. Ha smesso di nevicare proprio mentre stavo arrivando, grandi nuvole annullavano la parte alta della montagna, ma sotto la visibilità era ottima, l’atmosfera candida e sospesa. Un silenzio ovattato aleggiava sulla vallata,  avvolgeva ogni cosa - il paesaggio, purificato dalla coltre immacolata, sembrava vivificato e disposto in una calma, paziente attesa.

Spaccatura delle Lecce


Aerea prospettiva, 10 febbraio 2015

Di ritorno da una sessione fotografica antelucana nel parco regionale del monte Cucco, in Umbria, dall’alto, improvviso, mi è apparso questo paesaggio: i tetti del paese di Costacciaro, arroccato su un cocuzzolo alle falde della montagna, la teoria delle colline marnoso-arenacee distese sullo sfondo e, in mezzo, la campagna coltivata. La prospettiva a volo d’uccello restituiva una visione d’insieme insolita e accattivante. I campi divisi da siepi, filari di alberi, boschetti. Poche annose querce camporili svettanti qua e là. Macchie regolari di grano verde appena spuntato, preludio di un risveglio primaverile ancora lontano. La temperatura era gelida, l’inverno non sembrava avere intenzione di mollare l’osso. Una nevicata leggera, fresca, era caduta nella notte, la luce del primo mattino, tersa, illuminava  di lato campagna e colline.
Il monte Catria e il monte Cucco sono due rilievi calcarei importanti dell’Appennino umbro-marchigiano settentrionale. Hanno notevole interesse naturalistico, c’è quasi tutta la fauna appenninica, una flora interessante, boschi antichi, forre, cavità sotterranee tra le più importanti. 
Forse l’elemento più peculiare è però proprio il paesaggio delle campagne e delle alte colline che preannunciano lo slancio verso le montagne. Un ambiente ancora sostanzialmente integro, rimasto pressoché inalterato nel corso dei secoli. 
Il cambiamento più evidente, legato alla fine della mezzadria è stato a carico delle “alberate umbro-marchigiane”. Fino ad alcuni decenni fa filari ininterrotti di aceri campestri e olmi antichi che venivano “maritati” alle viti, ornavano i campi e davano una connotazione tipica alla campagna, verde delle chiome di centinaia e centinaia di alberi. Una specie di bosco rado e rigoglioso, intervallato da piccoli appezzamenti coltivati seguendo il metodo della rotazione. 
Sono andati perduti verso la metà degli anni sessanta del secolo scorso, divelti uno dopo l’altro senza troppi preamboli e rimpianti dai mezzi meccanici. 

Nuove necessità hanno così distrutto, nel volgere di qualche anno, un equilibrio che si manteneva inalterato da tempo immemorabile e che ha caratterizzato il paesaggio agricolo nei territori di cultura etrusca e latina dall’inizio della sua storia.