Luciano Gaudenzio - Carnia, cuore verde del Friuli Venezia Giulia - Parte seconda

Casera Razzo, al confine tra il Friuli e il Veneto. Sullo sfondo il Monte Bivera




Sono disteso sul letto e come spesso mi succede ripenso alla pianificazione fatta per l'indomani...."ho messo tutto nello zaino?", "ho calcolato correttamente i tempi necessari per arrivare con calma sul posto e anticipare l'alba?" poi, di seguito, arrivano i pensieri più...."artistici". Ripenso al luogo che conosco bene, e immagino le inquadrature che potrò realizzare, sperando, come sempre, di essere aiutato dalla luce.
Ma il pensiero che costantemente rimbalza tra tutti, è relativo alle condizioni che troveremo lassù: "quanta neve ci sarà ancora"?
E' maggio, ma quest'anno in quota ha nevicato come mai succedeva da tantissimi anni.
Il lago che dovremo fotografare si starà sciogliendo o sarà ancora immerso nella morsa dell'inverno?
Questo sovraffollamento mentale dura pochi minuti. Tutti sappiamo quale magnifica macchina da calcolo sia il nostro cervello e quanti migliaia di dati possa elaborare in pochi minuti, se non secondi.
Presto mi addormento.
E nello stesso tempo in cui mi sembra di essermi addormentato, di colpo, improvvisamente, vengo svegliato dall'odioso suono della sveglia impostata sul cellulare.
Devo aver dormito pochi minuti mi dico, controllo e purtroppo l'ora è giusta.
Assieme a me ci sono Marco, il regista de L'Altroversante e il direttore della fotografia, Bruno. Anche se siamo all'inizio di quella che sarà una lunghissima storia che vivremo assieme sulle montagne italiane, l'intesa è già molto forte. All'inizio mi è sembrato strano vedere delle persone che ti girano attorno mentre stai fotografando. Non è facile abituarsi. Ma la passione per la Natura e la contemplazione, aiuta a creare brigata.
Facciamo velocemente colazione. In silenzio. Carichiamo la macchina e partiamo in direzione della Val Pesarina, Casera Razzo, un valico proprio sul confine tra il Friuli Venezia Giulia ed il Veneto.
L'obiettivo che ci siamo posti è quello di fotografare un lago effimero che si forma solo in primavera con lo scioglimento della neve caduta durante l'inverno. In particolare mi piacerebbe riprenderlo al disgelo, ancora con un pò di ghiaccio in superficie e sullo sfondo il Monte Bivera, una delle montagne icone della Carnia.
Mentre guido nella notte tra gli stretti tornanti che portano alla forcella Lavardet, sbircio curioso attraverso il parabrezza, verso l'alto, verso il cielo. Non riesco a capire se ci sono stelle. Forse si, qualcuna, ma sembra una giornata piuttosto nuvolosa. Bene! Nella fotografia di paesaggio, la variabilità delle condizioni atmosferiche aiuta moltissimo a riprendere un determinato luogo o soggetto in condizioni insolite.
Arrivati alla Forcella, capiamo però che sarà una giornata difficile. Si vede a pochi metri. Le nuvole basse che molto spesso si formano all'indomani di una giornata piovosa, avvolgono tutto, dalla foresta alla strada che stiamo percorrendo, dove ancora abbondano cumuli di neve piuttosto consistenti.
La temperatura esterna si aggira attorno allo zero.

Arriviamo al parcheggio di Malga Razzo che è ancora buio e c'è tanta, tanta neve.
Ci incamminiamo verso il lago. Spero vivamente che non sia tutto coperto.
Le nuvole basse sono ancora presenti, ma si è alzato il vento e questo è un ottimo segnale.
Ancora pochi passi e nella fioca luce dell'alba intravediamo il lago. La neve lo ricopre ancora, ma sotto, l'acqua, comincia a farsi spazio. Sembra un puzzle che si sta formando.
Il vento, molto forte, fa il suo dovere. Non entra la prima luce, quella più calda che colora le nuvole. Probabilmente lontano, dove sta sorgendo il sole, ammassi nuvolosi impediscono ai suoi raggi di raggiungere la cima del Bivera. Attendo una decina di minuti e la luce finalmente comincia a filtrare e illumina dolcemente la cima del gruppo montuoso.  


L'atmosfera è però interessante. Sul lago, sull'intera piana, aleggia una dolce nebbiolina in dissolvimento, così proprio in quell'istante, decido di scattare. La composizione sul lago l'avevo preparata ormai da diversi minuti.

Poi volgo la mia attenzione sulle nuvole scure che danzano veloci nel cielo, sopra la montagna. La luce illumina il crinale e crea un meraviglioso contrasto.
Oltrepassato il crinale, il sole comincia ad arrivare sul bosco di larici, dove regna una certa confusione.
Probabilmente più di una valanga si è abbattuta su loro, piegandoli, contorcendoli ma non spezzandoli.
Sono stanchi di questo lungo inverno e lo manifestano nei verdi tendenti al giallo che presto diverranno molto più scuri.
In tutta la vallata echeggia il soffio del gallo forcello e i suoi ritmati gorgoglii.


Il resto della mattinata, finchè ancora la luce regge, è dedicata alle riprese video. Su e giù per il crinale innevato, con sullo sfondo il Bivera. Con il vento fortissimo che spazza la vallata è una vera faticaccia!
Quando Marco e Bruno si dedicano agli ultimi ciak, decido di riposarmi un attimo davanti ad una delle stalle della Malga.
Siamo a maggio! giudicate un pò voi.....
Mentre il gallo forcello non ne vuole sapere di smettere di cantare, rifletto su quanto dura sia la vita a queste quote.
Sicuramente per gli animali. Ma anche per le poche persone che decidono coraggiosamente di abitarci.

Una mezz'ora dopo questa riflessione ne ho la certezza.
Ci troviamo al Rifugio Tenente Fabbro.
Davanti ad una tazza di caffè fumante, la giovane coppia di gestori, che qui si ferma per tutto l'inverno, ci racconta di un tempo inclemente, che li ha fatti lavorare pochissimo, isolandoli anche per settimane di fila.
Incredulo, guardo la foto ricordo del papà che la ragazza mi ha portato appoggiandola sopra il bancone. Un ritratto sopra il tetto del rifugio che di suo fa tre metri e mezzo e altrettanti ce ne sono sopra la sua testa....in totale più di 7 metri di neve!
Papà e amici sono arrivati da Laggio, un piccolo paesino del Cadore, nel Veneto, quando il tempo glielo ha permesso.
Con gli sci e le motoslitte tutti ad aiutare i coraggiosi giovani gestori e la loro bimba di appena pochi mesi.
Io e Marco, ci guardiamo d'intesa. Siamo senza parole, un pò ammirati, un pò stupiti dal coraggio e dalla loro scelta di vivere in un rifugio isolato da tutto e tutti.
Speriamo che l'estate sia più clemente e riservi loro tante soddisfazioni. Se lo meritano davvero.

Maurizio Biancarelli - Orridi di Uriezzo e Marmitte dei Giganti meraviglie di roccia - Piemonte




Dettaglio delle marmitte dei giganti

Fino a circa 12000 anni fa il grande ghiacciaio del Toce ricopriva la Valle Antigorio (provincia del Verbano-Cusio-Ossola), in Piemonte. A valle del ghiacciaio scendevano una serie di torrenti che,  con le loro acque vorticose, scavavano lentamente canyon sempre più profondi e stretti nella roccia viva. 
Col cambiamento climatico e col susseguente, progressivo ritiro dei ghiacciaio questo reticolo di canyon è stato abbandonato dalle acque e oggi è possibile percorrerlo tranquillamente a piedi.



Di ritorno da Devero, ho deciso di dedicare un paio di giorni a visitare questo angolo così particolare: infilarsi nel dedalo di strette pareti rocciose dominate  dall’oscurità e da un’atmosfera costantemente umida fa un certo effetto. È un po’ come visitare le viscere della terra e tornare indietro nel tempo di millenni. 
A tratti penso alla potenza della gran massa d’acqua che scorreva impetuosa dove ora mi sto insinuando e sento brividi lungo la schiena. 
Le pareti erose sono lisce e verdastre per la presenza di muschi, epatiche, felci  e altre piante amanti del clima umido. 
Marmitte dei Giganti
Ho deciso di visitarli tutti, e cammino da ore, mentre ogni tanto scatto delle foto nei punti che più attirano la mia attenzione. Tutt’attorno pareti levigate, messe in risalto dalla luce radente che scende perpendicolare, rocce come valve lisce di enormi conchiglie. Mi sento avvolto, osservo incuriosito ed estasiato. Nei punti più stretti una sensazione di disagio affiora, l’ambiente sembra improvvisamente estraneo e opprimente, ma è solo un attimo. La voglia di scoprire, di vedere oltre  vince. Avanzo quindi lentamente, in alcuni punti i passaggi sono così stretti da dover faticare non poco  per passare con lo zaino sulle spalle e il cielo di colpo scompare sostituito dall’incombere minaccioso delle rocce. È quasi buio, anche se siamo nel primo pomeriggio.
Mi piacciono molto i luoghi d’acqua e questo connubio tra roccia, elemento liquido,lento trascorrere del tempo, oscurità rende ancora più intrigante la scoperta degli Orridi di Uriezzo.
Mentre avanzo incontro anche un gruppo di turisti, non sono molti ma sento il loro vociare da lontano. Sono accompagnati da una guida; si trattengono un pò nel punto in cui mi sono fermato, ci salutiamo  e poi loro vanno avanti, proseguono il cammino mentre le voci si affievoliscono e poi spariscono del tutto.Il silenzio ora è tornato perfetto, niente lo interrompe.
Passo un intero pomeriggio a visitare un luogo dopo l’altro: orrido sud, orrido nord-est, orrido ovest. Faccio tutti gli spostamenti a piedi e, quando la sera torno al camper, sono decisamente stanco e pronto per una buona cena che mi rimetta in sesto prima della lunga, meritata dormita.
La giornata è stata produttiva, con una bella luce diffusa perfetta per fotografare nel fondo degli abissi rocciosi.

La mattina successiva resto in zona per visitare le Marmitte dei Giganti in località Verampio. Anche queste sono impressionanti forme erosive create dalla forza delle acque di fusione del ghiacciaio. I ciottoli e i detriti sbattuti dalle correnti contro le rocce hanno contribuito alla formazione di varie cavità emisferiche di grandezza e forme diverse. 
Pozza d'acqua scavata nella roccia
I colori della pietra, lo scorrere delle acque che formano salti e cascatelle sono i soggetti di questa lunga mattinata passata a spostarsi sulla riva a cercare i punti più interessanti. Anche oggi un cielo nuvoloso mi aiuta a ridurre il contrasto, devo solo stare attento a non mettere i piedi sul bagnato; scivolare è tutt’altro che impossibile e anche di recente qui sono successe delle disgrazie dovute ad imprudenza e disattenzione. 
Cerco punti di ripresa diversi, anche a livello dell’acqua, provo con varie ottiche, sono affascinato da forme e colori che, specie se visti dall’alto, tendono a creare immagini astratte. È sempre bello ed efficace affiancare nel mirino un elemento sfuggente, in perenne moto caotico come l’acqua ai profili netti, ora duri e taglienti ora più morbidi, delle rocce.


Orridi di Uriezzo



Bruno D'Amicis - Faggete del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise





Le faggete appenniniche e, in particolare, quelle del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise non hanno certo bisogno di presentazioni. Dalle ordinate, quasi grafiche (e... noiose!) faggete coetanee, gestite per i tagli alle cosiddette “difese”: radure arborate di origine medioevale, con alberi enormi “capitozzati”, dalla tipica forma a candelabro. E ancora, troviamo i piccoli faggi contorti al limite della vegetazione arborea che stentano a crescere per la neve e i veri giganti silenziosi (i più vecchi d'Europa!) ricoperti di muschi e licheni, delle foreste vetuste. Ogni tipo di faggeta racchiude




un’atmosfera tutta sua e stimola emozioni e sensazioni ogni volta diverse. Entrare in una faggeta per esplorarla visivamente e fotograficamente è un lavoro intenso e faticoso. La composizione richiede attenzione e pazienza. Alcune situazioni, specie quelle più naturali, sono un vero rompicapo. E, poi, qui la luce è davvero tutto. Meglio, anzi, quando la luce non c’é: nebbia e giornate nuvolose sono le migliori per “scomparire” nel fitto di una foresta.

Questa delle faggete appenniniche è un po’ una missione “sui generis” per L’Altro Versante. Primo, perché è un lavoro in corso che io sto portando avanti già da diversi anni e da cui, quindi, attingerò immagini e spunti per il nostro progetto. Secondo, perché sono quasi tutti luoghi che io conosco talmente bene da potermi permettere di lavorare con calma. Ripercorrendo i miei passi anche più di una volta. Concedendomi il lusso di sfruttare più stagioni, cogliendo quindi il meglio di un anno e recuperando magari gli scarsi risultati di uno più sfortunato. 

L’autunno e, in particolare, il picco dei colori del fogliame morente, è sicuramente il periodo più attraente e, se vogliamo, più kitsch per ritrarre queste foreste. Ma non tutti gli anni sono uguali e questo 2014 sembra piuttosto imprevedibile e “spento”. Per quanto appena detto, sono felice di poter contare sui prossimi anni per cercare ottenere quello che voglio presentare per L’Altro Versante.

Detto questo, proprio nello spirito del progetto e data la sua ambizione per così dire innovativa, mi sto imponendo un diverso approccio al tema “faggete in autunno” e una rigorosa disciplina nel voler ri-esplorare situazioni classiche in momenti o con tecniche un tantino “diversi”… Mi spiego meglio: non credo che si possa davvero inventare qualcosa di davvero nuovo, né ho un coniglio da tirar fuori dal famoso cilindro, ma sto scoprendo il piacere di uscire un poco dagli schemi e divertirmi. Mi trovo quindi ad utilizzare l’obbiettivo che mai avrei scelto e che di solito rimane in fondo alla borsa; oppure ad attendere che la luce scenda oltre i limiti del visibile, per far apparire colori inusuali sul sensore o addirittura a fotografare gli alberi dopo che le foglie… sono cadute! E, talvolta, a fare tutto il contrario.
Insomma, un esercizio sia personale che di manifesto, in quanto parte di un progetto collettivo e di comunicazione, che mi sta dando tante soddisfazioni e, soprattutto, l'occasione di passare quanto più tempo possibile nell’atmosfera umida e muscosa delle ombrose e stupende faggete delle mie montagne.

Maurizio Biancarelli - Un giardino fiorito tra alte vette -Parco naturale Alpe Devero e Veglia, Piemonte

Un mare di nebbia ricopre la Val d'Ossola all'alba

giugno- luglio 2014

Arrivo a Devero dopo un viaggio di 600 km e mi accorgo subito che c’è qualcosa di diverso quassù. Devo lasciare il camper nel parcheggio e proseguire a piedi per raggiungere il paese, il traffico è interdetto e una sbarra che blocca l’unica strada di accesso non lascia adito a dubbi. Non è un problema, vorrà dire che nei prossimi giorni l’esercizio fisico sarà garantito.
Il tempo è perturbato, piove a tratti, sembra che l’estate alpina (e non solo alpina, per la verità) quest’anno non voglia regalare troppo sole. Pazienza, cercherò di sfruttare la luce diffusa e le atmosfere sospese del  tempo nebbioso, che altro fare?
Il paesino è molto bello, case restaurate per la maggior parte rispettando l’architettura originaria, in pietra locale con legno scuro.  Niente traffico e l’impressione è di genuinità, ben diversa da un certo stile esageratamente turistico. 
Anche qui non mancano guasti,  e progetti di ampliamento di impianti sciistici che certo produrrebbero un'alterazione pesante dell'ambiente montano, ma nel complesso il meglio prevale ancora.
Prima di venire ho contattato la direzione del parco, che si è dimostrata collaborativa. 
Il giorno seguente, entro nel bar all’inizio della salita che conduce al paese per un caffè e da lì telefono al direttore Ivano De Negri, che rende subito disponibile un rifugio all’Alpe Forno dove potrò sostare per un paio di notti, visto che le previsioni - piuttosto negative - parlano a breve di una finestra di bel tempo da sfruttare al volo.


Nuvole e nebbie sui boschi di Devero
Radames, la guida che dovrebbe accompagnarmi è però al momento impegnato e allora, parlando con Andrea, che gestisce il bar insieme a Monica, salta fuori che sarebbe disponibile lui ad accompagnarmi. Dopo una bella chiacchierata si è creata subito sintonia, Andrea sa ormai quanto basta del progetto e mi fa capire che per lui sarebbe un piacere salire insieme agli oltre 2000 metri dell’Alpe, un bel punto panoramico sulle più alte vette del parco, poste proprio ai confini con la Svizzera. 
Approfitto volentieri della buona sorte, Andrea è simpatico, in forma e conosce bene le sue montagne, ci accordiamo in fretta sull’orario: saliremo nel pomeriggio, per essere al rifugio prima di notte. 
Alle tre del pomeriggio partiamo. Finster, il labrador di Monica e Andrea, verrà con noi: è vivace e pieno d’energia, si vede che ha voglia di farsi una camminata. 
Quando partiamo c’è il sole, ma durante la salita ogni tanto arriva, improvviso,  qualche acquazzone. I rododendri sono in fiore, il loro profumo sa di buono, lo respiro a fondo mentre saliamo e ogni tanto chiedo ad Andrea di fermarsi per qualche foto. In alcuni tratti un vero e proprio giardino fiorito ci accoglie: la natura s’è messa il vestito della festa e lo mostra orgogliosa.


Rododendri e veratro bianco sulle rive di un torrente



Rododendri,  Codelago sullo sfondo
Quando arriviamo al rifugio fa freddo, siamo vicini al tramonto, Andrea mi saluta in fretta e imbocca la via del ritorno con Finster che lo segue da vicino. Non vuole arrivare al paese troppo tardi. 
Il rifugio è restaurato da poco, e per me è un vero Eden: posizione magnifica, c’è un letto confortevole, una stufa e il necessario per cucinare. Tiro fuori il sacco a pelo, accendo la stufa e mi preparo per la cena e la notte, ma prima decido di uscire per un giro di ricognizione, voglio sfruttare la luce del crepuscolo. C’è ancora molta neve intorno e cammino evitando i numerosi ruscelli gonfi d’acqua che costellano torbiere e vallette nivali creando sinuosi meandri tra la bassa vegetazione d’altitudine. Oltrepasso ponti di neve e avanzo cercando un buon punto di vista per il tramonto. 



Vorrei una bella foto con la teoria delle alte vette austere per dare un’idea del parco, ma posso solo immaginare, non conosco per niente il posto. Seguo l’istinto decidendo, mentre cammino, dove dirigermi. Qualcuno dice che è il paesaggio stesso che guida i tuoi passi mentre ti muovi in natura. Non so, forse è solo questione di esperienza e di sesto senso fatto sta che, quando la luce del tramonto è al culmine mi trovo su un poggio erboso difronte ad una piccola pozza dalla forma irregolare mentre nel cielo una nuvola solitaria si accende di un bel rosa carico. Sullo sfondo, nella luce tenue, cime possenti cariche di neve. Sono stanco per la salita e per il freddo, ma l’adrenalina adesso scorre e mi aiuta a trovare le energie. Non posso sprecare questa occasione e mi sposto veloce per assicurarmi la migliore posizione per la foto. Vorrei che la superficie immobile dell’acqua della pozza si riempisse del riflesso della bella nuvola in cielo. 

Quando torno alla baita è buio, ma un piacevole tepore mi accoglie. Cena frugale e poi a subito a nanna.
La mattina dopo salta la prevista uscita all’alba, il tempo è peggiorato: forti raffiche di vento durante la notte scuotono le imposte e la neve imbianca tutto. Durante la mattina migliora e la neve si scioglie al tepore del sole; guardando fuori dal finestrino, mi accorgo di essere circondato dalle marmotte. Escono dalle tane, prendono il sole, corrono, mentre le osservo divertito dall'interno, tentando qualche scatto senza troppa convinzione, per la verità. Ho voglia di godermi lo spettacolo e il silenzio.
Più tardi ricevo una telefonata da Radames, il guardaparco, che mi verrà a prendere l’indomani mattina per scendere insieme: il tempo è di nuovo in peggioramento. 
La mattina successiva mi alzo per l’alba e dopo una serie di foto alle vette riflesse nei laghetti d’alta quota, inizio la discesa in compagnia di Radames. Vedo nuovi posti e ascolto con attenzione la mia guida che sa tutto delle montagne dove è nato. Storia delle interazioni fra uomo e boschi, notizie sulla fauna e una passione condivisa per i lupi, sono alcuni degli argomenti che affrontiamo mentre godo del paesaggio e scatto alcune immagini. 
Uno degli aspetti più piacevoli del nostro progetto è proprio quello di conoscere persone competenti e appassionate, con le quali è facile entrare in sintonia e dalle quali ricevi informazioni impossibili da trovare altrove. Radames mi confessa anche la sua preoccupazione per i piccoli di gallo forcello: il tempo inclemente nel momento della schiusa  delle uova fa strage di pulcini e quest’anno non promette affatto bene. I censimenti indicano, per fortuna, popolazioni di adulti piuttosto numerose negli ultimi anni. Le ore passano veloci mentre scendiamo e chiacchieriamo e presto ci ritroviamo al bar di Andrea, dove ci rifocilliamo ben volentieri. 

Laghetti sull'Alpe Forno


Il colore incredibile del limpido laghetto delle streghe, Crampiolo

Molti sono i programmi per i giorni successivi: per esempio visitare il laghetto delle streghe a Crampiolo e il lago Nero sul Cazzola. Tempo permettendo, naturalmente.


Bruno D'Amicis - Abetina di Rosello e Cascate del Verde - Abruzzo

Diciamocelo, Rosello e Borrello, Comuni della Provincia di Chieti a pochi chilometri di distanza tra loro, non sono proprio dietro l'angolo. Anche partendo da molte località in Abruzzo, un'ora e mezza o due di auto e curve vanno messe in conto. Lasciate le autostrade e le superstrade, però, non si guarda più il contachilometri e gli occhi vengono rapiti dal paesaggio incredibile che si svela davanti. Un antico mosaico ambientale, commoventi borghetti medievali abbarbicati sulle alture, Madama Majella a chiudere l'orizzonte: la Valle del Sangro è davvero lo Shangri-La d'Abruzzo.
Sono venuto sin qui per fotografare due piccole, ma importanti riserve naturali: l'oasi delle Cascate del Verde di Borrello e l'Abetina di Rosello, parte delle ultime foreste di Abete Bianco dell'Appennino Centrale, che caratterizzano quest'area di confine tra Abruzzo e Molise. 

Con tre salti che insieme superano i 200 metri, quelle del Verde sono le cascate naturali più alte d'Italia. A ragione attirano quindi ogni anno migliaia di turisti e una cooperativa di giovani locali si occupa della gestione e dell'accoglienza dell'oasi. 
Ho dato appuntamento qui anche al regista de L'Altro Versante TV Marco Rossitti e alla sua troupe che arrivano dal lontanissimo Friuli per filmarmi in azione in questi luoghi. Ad attenderci e guidarci, l'amico Giuseppe Di Renzo della cooperativa Rio Verde Ambiente e Turismo, profondo conoscitore della zona nonché appassionato fotografo.
Ci avviciniamo lentamente ai salti d'acqua, saltellando su massi e graffiandoci tra i cespugli, carichi di attrezzatura come muli. Il rumore dell'acqua si fa sempre più forte. La cascata si rivela, con la sua acqua pulitissima. Foglie morte che danzano nei gorghi come poesie haiku e bellissimi aceri ed ornielli che crescono sui massi scolpiti delle rive, quasi consapevoli delle regole della composizione fotografica... E io ho nemmeno due giorni per fotografare 'sta meraviglia! 

Tempi lunghi o brevi? Inquadrature larghe o dettagli? Classiche o creative? Il cervello fa automaticamente le sue scelte e alla fine la virtù come sempre, sta nel mezzo. Decentrabile e 50 mm la faranno da padrone. Alla fine, tutto sommato, sono soddisfatto. Peccato, una puntina di colori nel bosco in più non avrebbe guastato: ma con quest'autunno pazzo, non mi posso lamentare. Le foglie sarebbero potute già essere a terra!

Ci avviciniamo a Rosello e ammiriamo i crinali boscosi che vanno da Castiglione Messer Marino fin verso Pescopennataro e Capracotta, il Molise. I boschi di faggio, acero e altre caducifoglie stranamente ancora verdi in alcune parti e rossi in altre, sono tutti punteggiati dal verde scuro degli abeti bianchi. Abies alba, che in queste zone raggiunge altezze ragguardevoli, è un albero bellissimo, che mette soggezione e tranquillità al suo cospetto.

Per esplorare da vicino la Riserva Naturale dell'Abetina di Rosello e avventurarci nei suoi angoli più nascosti, non potevamo non farci condurre da una guida d'eccezione, il grande Mario Pellegrini, profondo conoscitore della natura appenninica e vero e proprio genius loci di queste zone. A lui va il merito della creazione di questa bellissima area protetta quasi vent'anni fa e della conoscenza del suo complesso ecosistema. Mentre camminiamo verso la forra del torrente Turcano, Mario snocciola dei numeri: 450 specie di funghi, 600 di coleotteri, una marea di specie vegetali, tra cui il bellissimo Acero di Lobel. E poi anfibi, rettili, uccelli e mammiferi: una fauna d'eccezione, che vanta l'orso bruno marsicano, il lupo, l'astore, il picchio nero, quello mezzano e il dorsobianco. Troviamo tante tracce delle presenze faunistiche, ma l'unico incontro ravvicinato è con una microscopica Salamandrina di Savi, anfibio urodelo che si trova solo in Italia peninsulare e piuttosto raro nel versante Adriatico. Qui, nel regno dei muschi e del legno morto, abbondantissima.

Entriamo nella forra, passando accanto a enormi tronchi di Abete che sembrano zampe di elefante. Alcuni alberi, ci rivela Mario, superano i cinquanta metri di altezza e un paio, sembra, superano addirittura i 56 metri. Guadagnando così il titolo di alberi più alti d'Italia e rivaleggiando con simili in Croazia per quello di alberi più alti d'Europa.
Non è facile fotografare questo bosco. E' tutto un intrico di alberi morti, rami, foglie e ostacoli. Ma questa è Natura selvatica e quindi bisogna farsene una ragione. Come non concentrarsi sulle foglie morte in una pozza o sui funghi giganti che crescono sui tronchi? E i licheni su quel rametto? Mamma mia, quanto è alto quell'albero!

Dovrò tornare diverse volte nella riserva per portare a casa delle immagini che mi soddisfino. La prima volta una nebbia fittissima ha avvolto tutto per tre giorni. Poi, sole e luce forte. Ogni volta nuove soluzioni da cercare. Ogni decina di metri ha richiesto un'ora di esplorazione visiva per le infinite possibilità che questo ricco ecosistema offre. E' difficile non cadere nella banalità con una foresta del genere e quindi ci si sforza di mantenere una visione fresca e creativa. Ma quando arriviamo ad un ansa del torrente Turcano, dove due abeti enormi coperti di muschio sono crollati mettendosi di traverso e i colori dell'autunno dei faggi appaiono sullo sfondo, non voglio sentire nessuno: treppiedi, grandangolo, polarizzatore e grande profondità di campo. Immagini classiche e semplici. La contemplazione estatica, infatti, non tollera distrazioni.