Luciano Gaudenzio - Carnia, cuore verde del Friuli Venezia Giulia - Parte prima

C’è un giovane raggio di sole che ad ogni alba scrive i contorni di queste cime poi, indomito, gioca tra le rughe degli scalatori e scivola via lontano.
Quassù le stelle bruciano di luce più vera, quassù tutti vengono a cercare qualcosa o qualcuno, quassù la vita cresce come crescono i fili d’erba.
Qui il bosco ancora respira e racconta storie di uomini e alberi, di nidi e vento.
Si sale tra la brina e l’aurora lasciandosi il futuro alle spalle.           
Si incontrano mani che sfiorano il legno e sguardi antichi che il tempo non ha ingannato.
Ci sono mestieri dal ritmo lento come armoniosi intarsi e l’atavica gioia dell’attesa.                                      
Civiltà che fugge il tramonto nel sogno dell’alba.


Una casera nel cuore del bosco, Trava
Inizio a raccontarvi questa mia missione attraverso la magnifica poesia di Giacomo Buliani e proponendovi un'immagine che, secondo me, racconta tantissimo la Carnia, la regione montuosa più importante del Friuli Venezia Giulia.

Non abito in Carnia. Vivo lontano da questi luoghi quasi due ore di auto, ma in due momenti distinti della mia vita, questa terra ha giocato un ruolo importantissimo. Da bambino ho passato qui estati stupende, ospitato nella casa del mio migliore amico di allora. Momenti di compagnia. Momenti di gioco, quasi sempre all'aperto, sui sentieri che salivano alle casere, incastonate tra boschi fitti e quasi impenetrabili, dove i funghi crescevano abbondanti. Un divertimento pazzesco per noi bambini cercarli!
Poi, da adulto, sono tornato. Per tre anni. Raccontando e cercando di far conoscere la Carnia attraverso le immagini. Un'esperienza condivisa con altri due amici fotografi, Paolo e Gabriele e che è sfociata nel libro "Carnia, confine tra cielo e terra"  di cui la poesia è l'introduzione iniziale al volume.

Ecco, per la terza volta, si presenta nuovamente la possibilità di visitare questi luoghi, questa volta attraverso l'impegno del nostro progetto. Ci torno volentieri e ho un'idea fissa che voglio cercare di realizzare.
C'è un pezzo della poesia, più del resto, che racconta e descrive la Carnia...."Qui il bosco ancora respira e racconta storie di uomini e alberi, di nidi e vento...." Si, voglio iniziare a raccontare per immagini la Carnia partendo proprio dove ho imparato a riconoscere il bosco e i suoi silenzi, il bosco che respira. Le risate e il divertimento di noi bambini. C'è una coincidenza poi che fa "tornare" tutto. Il regista televisivo che  fin dal primo momento ha creduto nel progetto Altro Versante e che condurrà le riprese sul campo, Marco Rossitti, è il fratello maggiore del mio migliore amico di allora.

Con Marco, partiamo alla volta di Trava, la piccola frazione carnica, dove alloggeremo per alcuni giorni.
La casa è sempre la stessa. Anche se sono passati più di 30 anni, riconosco gli odori, le luci che entrano nelle stanze, anche il calore che emana la stufa è lo stesso.
Con noi c'è anche Bruno che, assieme a Marco si occuperanno delle riprese video, e dove un pò, noi fotografi, saremo gli involontari protagonisti di un film che, a dir la verità, si racconterebbe benissimo da solo.
Io e Marco non abbiamo dubbi su dove iniziare a fare le prime immagini.
Il bosco e i suoi straripanti verdi che lo caratterizzano in questa stagione sarà il nostro attore principale.
Svegliati di mattina molto presto ci dirigiamo verso la parte alta del paese servita da una vecchia mulattiera, ora strada percorribile, ma molto, molto stretta. Parcheggiamo la macchina e ci incamminiamo lungo uno dei tanti sentieri che entrano nel bosco "che respira". Il paesaggio non è cambiato molto rispetto a tanti anni prima. E' vero, le zone a pascolo attorno alle casere si sono ristrette. Il bosco lentamente ma inesorabilmente riconquista quello che un tempo gli fu tolto.
Camminare qui mette serenità. E' un mondo antico. Di pace. Mi fa tornare bambino. I primi scatti di questa missione non sono propriamente "naturalistici", ma raccontano del millenario rapporto tra l'uomo e Natura. Raccontano le caratteristiche di questo territorio, un vero e proprio cuore verde nel centro della nostra Regione, da far conoscere e tutelare.
La luce morbida del mattino diventa più intensa. Proprio al limite delle radure lo sguardo cade ipnotico verso un giallo intenso. E' il maggiociondolo che in questa stagione è in piena fioritura.
Maggiociondolo in controluce
Ancora le tipiche casere dei boschi carnici
Ora, abbondante, la luce si insinua tra i rami di questo elegante arbusto.
Ci giro attorno e decido di fotografarlo in controluce. Solo così forse riuscirò a metterne in evidenza le gocce di rugiada che ancora lo appesantiscono. Devo essere veloce. Il sole asciugherà tutto nel giro di pochissimo, quindi piazzo il cavalletto, cerco una composizione piacevole e guardo il risultato nel visore della macchina.
Alzo la testa per cercare altre immagini, ma il sole, spostandosi, non crea più l'effetto che tanto mi era piaciuto pochi istanti prima.
Anche i prati attorno alle casere sono una vera esplosione di colori: dal giallo dei ranuncoli al porpora delle orchis morio e tantissime altre specie. Un ultimo scatto a due casere e decidiamo di ritornare.
Ad entrambi è venuta una gran fame!

Nel pomeriggio il tempo peggiora. A tratti piove intensamente. Riuniti attorno ad una cartina distesa sul tavolo decidiamo cosa fare.
Il cielo è di un bianco latte molto luminoso. Di fare paesaggio non se ne parla. Acqua. Questa è la soluzione. L'acqua per essere ripresa ha bisogno di giornate luminose dove la luce arriva incidente, non diretta. Solo così si riesce ad enfatizzarne colori, trasparenze e vegetazione che rigogliosa cresce nelle vicinanze.
Prendiamo la strada che da Trava scende verso Villa Santina. Da qui, la cascata della Plera, nella frazione di Invillino, è vicinissima.
Parcheggiata la macchina ci incamminiamo lungo un sentiero costeggiato da un lussuregiante bosco di pino nero e in pochi minuti arriviamo alla cascata. Le condizioni sono perfette! Vegetazione dalle mille tonalità e sfumature di verde e acqua abbondante.
La Cascata della Plera, Invillino
Sono affascinato dalla bellezza misteriosa di questo posto. Dopo essere passato da un lato all'altro della cascata decido di riprenderla sul versante destro, mettendo in evidenza i muschi e le felci che, abbondanti, crescono sulla parete umida, solcata da mille evanescenti rivoletti d'acqua. Nel momento di massima concentrazione sono richiamato all'ordine da Marco e Bruno. Fotografare in compagnia è bellissimo. Ma i fotografi, usualmente, sono animali solitari. Soprattutto quelli naturalisti. Si muovono lenti in Natura. Ne ascoltano i silenzi. Cercano anche di interpretarli. Il loro sguardo è sempre alla ricerca della luce, della composizione equilibrata. Dell'ordine e del disordine. Concentrazione. 
Non sono abituato a "Luciano, spostati un pò più a destra.....attenzione! il riflesso nell'acqua!.... mmmh, hai una posizione troppo innaturale, sciolto, sciolto! 
AIUTO!
E' solo un attimo. Marco e Bruno si muovono bene. Anche loro sono delle persone interessate ed appassionate e sanno fare bene il loro mestiere. L'Altroversante, poi, è un progetto multimediale e tutti sappiamo benissimo che è nato attorno ad un concetto di fotografia ma il video sarà importantissimo.  Darà azione e movimento a tutti i soggetti che andremo a riprendere. Una sicura maggiore visibilità.
Finito questi momenti di "passione" torno alla cascata. Una volta adempiuti i miei doveri di improvvisato attore posso dedicare maggiore attenzione al mio soggetto.
Quando non so come muovermi, inizio a guardare. A frugare ogni possibile spazio che ho attorno.
Alle volte succede il miracolo. C'è l'illuminazione. Altre, nonostante gli sforzi, non succede nulla. Anche se realizzo qualche scatto  so in cuor mio che sarà solo un file che occuperà lo spazio dei miei infiniti archivi.
Non è proprio un miracolo, anzi, in questo caso, era la composizione più ovvia, ma proprio non ero riuscito a vederla. Mi sposto sul lato sinistro della cascata e utilizzo un classicissimo primo piano di fiori spontanei.
La cosa più difficile è riuscire a trovare il giusto equilibrio tra la grandezza dei fiori, ripresi nel loro insieme, e la visibilità della cascata sullo sfondo.
Anche la messa a fuoco non è semplice. Avvicinandomi alla giusta distanza rischio di non avere la sufficiente profondità di campo per avere tutti gli elementi a fuoco. Per fortuna che c'è lui! Il mio amatissimo 24 decentrabile. Pochi movimenti sulle ghiere dell'obiettivo per bascularlo quanto basta e vualà. Anche dal lato tecnico l'immagine è risolta.
Ancora qualche controllo per vedere se è tutto ok....CLICK!

Soddisfatti ripercorriamo il sentiero già parlando della giornata di domani. Ci alzeremo alle 2.00 mattina. Nonostante sia maggio inoltrato troveremo tanta, tanta neve. Farà freddo....ma tutto questo ve lo racconto nella prossima puntata... :)


Maurizio Biancarelli - I Monti Sibillini, tra natura e mistero, Umbria e Marche - Parte seconda


28 maggio 2014

Stamattina l’attesa di una buona luce sul Piano Grande è stata vana. Grossi nuvoloni grigi e compatti non hanno concesso spazi ai raggi del sole. Aspetto di vedere quello che succederà col trascorrere del tempo, chissà, magari uno squarcio nella scura coltre del cielo potrebbe risolvere una mattinata plumbea.  
Se esiste un luogo capace di indurre pensieri profondi, impossibili in altri luoghi, questo è il Piano Grande.
La grande morbida distesa verde incisa dal Fosso dei Mergani è un luogo perfetto per cercare un rapporto con la natura fatto di intimità, sollievo, appagamento. Basta osservarla da lontano e i pensieri diventano più fluidi, l’umore si innalza, la vista può spaziare sulla distesa di un paesaggio armonioso e libero, appena sfiorato dai segni dell’uomo.
Nel suo bel libro “Luoghi selvaggi”, Robert Macfarlane descrive una serie di viaggi fatti in prima persona alla ricerca della natura selvaggia e si sofferma a descrivere in maniera mirabile le motivazioni profonde del viaggio e il senso stesso di questa ricerca.
Il contatto con la natura selvaggia è un’esigenza profonda, sentita dall’uomo fin da tempi remoti. Basti pensare a monaci ed eremiti, che sceglievano di vivere in uno stretto rapporto con la natura primigenia per indagare il loro intimo alla ricerca di un contatto col trascendente, o agli esploratori spinti verso terre lontane da spirito d’avventura e dalla voglia di conoscere l’ignoto, di entrare in comunione con una natura ancora per niente soggiogata dall’uomo. Tutte queste persone hanno cercato e trovato corrispondenza tra le loro esigenze interiori e gli elementi fisici del paesaggio.




Anche se le vere terre selvagge  sul pianeta si sono ridotte ai nostri giorni, la selvaticità, lo spirito selvaggio e indomito di una  natura che continua caparbiamente a seguire i suoi ritmi e i suoi tempi incurante della ingombrante presenza dell’ Homo sapiens, è possibile ritrovarlo anche a poca distanza da casa. Basta saper scegliere tempi e luoghi. 
I Monti Sibillini e il Piano Grande ne sono un esempio. 



Nei fine settimana estivi le strade del parco nazionale sono prese letteralmente d’assalto, automobili parcheggiate in lunghe file, gente dovunque, rumore. Spettacoli consueti del turismo di massa. 
Basta però camminare per qualche chilometro, o scegliere opportunamente date e orari e il silenzio e lo spirito di queste montagne, visitate in tempi lontani da pellegrini e negromanti, si manifestano e avvolgono chi sa ascoltare. Finiscono per coinvolgere ed ammaliare.
Il Piano Grande rappresenta per Macfarlane un esempio di “santuario”: una depressione, cioè, circondata in tutto il suo perimetro da rilievi. I santuari hanno il fascino dei mondi perduti o dei giardini segreti. Al viaggiatore che vi accede dopo aver superato un passo suscitano il piacere sottile del proibito e dell’intrusione. 
Tante volte, aspettando in cima al valico che conduce verso il grande altipiano, ho potuto notare le reazioni di molte persone che, per la prima volta, se lo trovano di fronte. Sono invariabilmente le stesse: sorpresa e stupore. Si parcheggia la macchina e si scende in tutta fretta per godere della vista di un paesaggio al quale non si è preparati, una visione che supera le aspettative. Si scambiano sorrisi e commenti entusiasti, si scattano le prime foto. 
Per me non è affatto la prima volta, ma l’emozione tende a rinnovarsi, specie quando accade qualcosa di inaspettato o di interessante. 
Come in questo momento, con i raggi del sole che stanno vincendo la loro battaglia con le nuvole, si infiltrano attraverso grandi varchi e illuminano a macchie l’altipiano, vivificato da un’esplosione di verde nel punto in cui la colonna di luce prende contatto coi prati. Finalmente posso usare la macchina fotografica piazzata da tempo sul cavalletto, e comincio a scattare, godendomi segretamente il privilegio di essere solo di fronte a una straordinaria manifestazione della natura.

Maurizio Biancarelli - I Monti Sibillini, tra natura e mistero - Umbria e Marche - Parte prima



25 maggio 2014

I Sibillini rappresentano per me le radici profonde, la terra con la quale ho i legami più forti. 
Sono nato in un minuscolo villaggio a pochi chilometri da Norcia e ho respirato l’aria di queste montagne fin dalla nascita, anche se le ho conosciute solo molti anni più tardi.
Il mio primo servizio fotografico, apparso sulla rivista Oasis nel lontano 1989, ha avuto come soggetto proprio loro, quando erano un luogo molto meno conosciuto e frequentato e il parco nazionale non era stato ancora istituito. 
Ricordo ancora, a distanza di tanto tempo, l’emozione dell’incontro a Milano con l’allora direttore della rivista Paolo Fioratti e l’eccitazione e la gioia di ricevere la sua approvazione per il servizio. I suoi complimenti e incitamenti sono stati uno sprone importante nel proseguire il mio lavoro di fotografo.
Col passare del tempo le cose sono cambiate e ora il Piano Grande e il monte Vettore sono diventati vere e proprie icone del paesaggio italiano. Le fioriture estive attraggono folle di turisti e fotografi, ma anche in altri periodi dell’anno il fascino misterioso dei “Monti Azzurri”, non manca di richiamare a sé una nutrita schiera di affezionati.





Questi pensieri attraversano la mia mente mentre mi dirigo verso i Pantani, una zona palustre situata appena al di là dei confini del parco nazionale, a 1500 metri di quota. 
E’ ancora buio mentre mi avvicino, voglio arrivare prima dell’alba, per sfruttare le prime luci e magari la nebbia, che in rare giornate senza vento invade la conca. Una missione in un luogo affascinante ma tanto fotografato come i monti Sibillini rappresenta una sfida, ma non ho avuto dubbi quando si è trattato di scegliere. D’altra parte L’Altroversante è di per sé una bella sfida e queste montagne sono nel mio cuore, fanno parte di me. Non potevo rinunciare.
Camminare in solitudine stimola pensieri e riflessioni, il tempo passa in fretta e quasi non mi accorgo di essere arrivato. Dall’alto indovino, attraverso il chiarore azzurrino del crepuscolo, il familiare paesaggio dei Pantani. Le doline colme d’acqua sono quasi cancellate da uno strato di nebbia, un velo impalpabile che si sposta lentamente sopra gli specchi d’acqua e li fa apparire solo a tratti,  tondeggianti e lucenti, sullo sfondo ancora scuro della conca. 
Provo subito qualche scatto inserendo lo spicchio di luna alto nel cielo ad oriente e trattenendo a stento la voglia di scendere e iniziare subito la ricerca della posizione giusta per qualche bella inquadratura dal basso, pronto per il momento tanto atteso dell’alba. 
Quando arriva, l'alba mi sorprende con una luce rosata che la nebbia spande lentamente sul paesaggio, prima fioca e localizzata poi più decisa e diffusa. 





Silenzio attorno, atmosfera umida e sospesa, contorni indefiniti. Gli scarponi sguazzano nel terreno fradicio, l’aria raggiunge le narici portando odore di fango. Ma ho occhi soltanto per la luce, che migliora sempre di più col trascorrere dei minuti, mentre la mia eccitazione cresce. 
Mi sposto veloce e cerco i punti giusti, so che tutto non durerà a lungo. Faccio attenzione a non commettere errori, può succedere, fretta e precisione non vanno d’accordo. Trovo due o tre soggetti in primo piano che mi soddisfano: un gruppetto di margherite che sbucano dalle acque basse, come se l’acqua stessa le avesse generate e steli di graminacee in controluce, che creano un bell’effetto grafico sulla superficie liquida color pastello.



Alla fine l’errore lo faccio lo stesso, mi accorgo di aver lasciato impostati gli iso più alti usati all’inizio, avrei potuto scattare a 100. Ma va bene  lo stesso, non è un grave danno.
Il tempo vola via e piano piano la luce cambia, la nebbia comincia a diradarsi e si apre come un drappo leggero su un  paesaggio dall’aspetto ora più ordinario.
Purtroppo adesso appare nitido anche quello che non è positivo. Anni or sono l’area dei Pantani è stata circondata da transenne di legno di nessuna utilità che hanno snaturato un luogo fino ad allora integro. Provo rabbia e amarezza per un danno ad uno degli ambienti umidi più belli di tutta la zona.
Scarponi e calzoni sono completamente fradici, ma l’esperienza è stata entusiasmante, (transenne a parte), e, nonostante il tepore del nuovo giorno induca  all’indolenza, mi accingo a tornare piano piano sui miei passi. 
Non posso evitare di ripensare alle immagini appena scattate e inizio, quasi automaticamente, a fare una classifica mentale di quelle che, sono convinto, risulteranno migliori.

Bruno D'Amicis - Parco Nazionale della Majella, Abruzzo - Alla ricerca della tundra appenninica, tra estate mediterranea ed era glaciale - Parte seconda



08 Luglio.
La notte è passata lentamente, tra il russare dei compagni di rifugio e il vento che scuoteva il bivacco. L'orologio ha suonato alle 4.30 ma ero già sveglio: fuori la tempesta. Una veloce occhiata al volto assonnato di mio fratello e ci siamo girati dall'altra parte. Non potevamo far altro che aspettare.
Il vento no, ma la pioggia almeno si è fermata verso le otto. Ci siamo allora alzati e fatto pigramente colazione e preparativi per la partenza. Dopo un terribile caffé solubile, pane e cioccolata eravamo stoicamente in marcia per Monte Amaro, la cima più alta della Majella. Appena risaliti sul pianoro del Monte Focalone, il vento ci ha di nuovo assaliti, stavolta con nuvole basse e una nebbia che ci accompagneranno per tutto il percorso. Lungo il sentiero, nel luogo chiamato “Primo Portone”, abbiamo incontato ancora un bel gruppo di camosci sparsi tra le meravigliose fioriture di Adonis, Doronicum, Isatis, etc. Il vento ci sferzava il volto e non ci siamo vergognati di indossare cappello di lana e guscio in gore-tex alle 10 di mattina di un giorno di Luglio... Aveva ragione il grande Giorgio Manganelli quando aveva definito l'Abruzzo “grande produttore di freddo e di silenzio.” 
Ogni tanto, facevo lo sforzo di guardare in aria e, come sempre, superior stabat gracchio, con la sua maestria di volo anche con le raffiche più sostenute. Abbiamo assistito anche all'incredibile attacco di un velocissimo falco pellegrino ai danni di uno stormo di gracchi, che si sono inseguiti nel vento, come veloci sardine davanti a un tonno. Eravamo senza parole.
Sali e scendi. Sali e scendi. Ogni tanto una breve sosta per scattare qualche immagine all'orrido della “Mucchia di Caramanico” che incide profondamente la testata della Valle dell'Orfento o alle tardive pulsatille cresciute a bordo sentiero.

Superato il secondo “Portone”, la nebbia si è sollevata giusto per una quindicina di minuti, svelando lo straordinario paesaggio primordiale della Valle Cannella. Tutte le doline di questa valle nata dalla forza di un ghiacciaio erano ancora piene di neve e la sensazione di essere sospesi tra l'estate mediterranea e l'era glaciale era forte. Ubriaco di questi spazi e dell'imponenza della visione scatterò sì e no trecento fotografie in meno di dieci minuti. Mi sono voltato un attimo, facendo appena in tempo a notare un puntino nero svanire nella nebbia in lontananza davanti a me: Matteo mi ha lasciato indietro e sta già per salire sulla cresta di Monte Amaro. Lo volevo raggiungere per non rischiare che uno di noi resti solo in queste condizioni meteorologiche, in cui è davvero troppo facile perdersi.



L'ultima ora di cammino è avvenuta nella nebbia più fitta e sotto leggere scariche di pioggia. La visibilità era così scarsa che quasi andiamo a sbattere contro il bivacco Pelino dal vivace colore rosso. Metà base spaziale, metà centro ricerche antartico, questa buffa struttura è un rifugio proprio in cima alla Majella. Considerazioni estetico-conservazionistiche a parte, eravamo felici di poterci riparare dal vento incessante e poterci cambiare i vestiti bagnati. Peccato che, una volta entrati, abbiamo dovuto constatare ancora una volta come in Italia addirittura il popolo degli escursionisti se ne freghi del bene pubblico. Sacchi ancora pieni di immondizia (addirittura resti di cocomero e bottiglie di vino in vetro!), fazzoletti, cartacce e altre schifezze riempiono il pavimento del bivacco; sotto una volta imbrattata da sciocche scritte tipo “Marta was here” oppure “Siamo i chiu forti!” di chiara matrice locale... Pazienza. Data una pulita sommaria, svuotando anche una bottiglia piena di.. urina (sic!), ci siamo cambiati e ci siamo infilati nel saccoapelo. Era l'una del pomeriggio e la sera non prometteva niente di buono. Ero un po' afflitto: temevo che tutto quello sforzo sarebbe stato inutile e che la missione sarebbe stata da ripetere.

La sveglia ha suonato alle 16.45 e ci siamo svegliati come da un coma. Fuori il vento ululava ancora ma la luce del sole entrava dagli oblò. Sono uscito tenendomi a fatica nel vento fortissimo, ma mi sono subito reso conto che quelle pazze condizioni atmosferiche stavano preparando un grande spettacolo per la serata. Il tempo di prendere il marsupio fotografico e il treppiedi e ci siamo avviati verso il Piano Amaro, pazzesco francobollo di tundra artica nel cuore del Mediterraneo, e vera meta della missione.

Ho coperto i pochi chilometri tra Monte Amaro e Cima dell'Altare in un tempo lunghissimo. La spettacolare Valle di Femmina Morta; il colpo d'occhio su Monte Sant'Angelo e Monte Acquaviva; le ondulazioni del Piano Amaro. Ovunque luci mutevoli, nuvole multicolori, camosci e fiori di tante specie diverse chiedevano giustizia alla mia reflex. Su una roccia precipite mi sono anche sporto (con mio fratello appeso alla cinta per controbilanciarmi...) per fotografare una piantina della rarissima e commovente Androsace mathildae cresciuta in una fessura. Il tempo è passato velocemente, così come velocemente è tornata la nebbia. Soltanto che stavolta il sole era più forte, riuscendo a filtrare. Sono le luci così a rendere la fotografia in montagna così speciale. Nonostante fatica e tempo, non rinuncerei mai a questi momenti in alta quota.



















In un attimo, la giornata sembrava volgere al termine, ma la Majella ci riservava il suo ultimo colpo di scena. In un cielo che volgeva nuovamente al nero, si è aperto improvvisamente un varco, e una luce viola intenso ha colorato le cime in lontananza, squisitamente incorniciate dalle nubi grigio-blu. E' stato un istante e non ho avuto nemmeno il tempo di piazzare il treppiedi: le foto sono bellissime, ma ahimé leggermente mosse. Mi sono morso il labbro quando le ho ricontrollate sullo schermo della macchina; ma poi ho sorriso, perché non era così importante: nel cuore avrei avuto sempre ben impressa l'immagine indelebile di quella magica serata sulla Montagna Madre.