Bruno D'Amicis - Parco Nazionale della Majella, Abruzzo - Alla ricerca della tundra appenninica, tra estate mediterranea ed era glaciale - Parte Prima



07 Luglio.
A quota duemila, camminando piano su una cresta che sembra la schiena di un leviatano. Il cielo sgombro di nubi, di un azzurro vivido e bidimensionale; una brezza leggera, che però scaccia via le mosche, fa ballare ranuncoli e genziane e solleva il polline dai pini mughi. Di fronte, altera e ineluttabile, la Montagna Madre, bianca di neve e calcare: la Majella, che incombe su di noi, seppure così lontana.
Accompagnato da mio fratello Matteo, l’unico che si è prestato generosamente al faticoso compito di aiutarmi nel trasporto di equipaggiamento, acqua e vettovaglie per le quasi 72 ore da passare in alta montagna, ho comunque più di venticinque chili sulle spalle e lo zaino, che dapprima cigola, ben stretto sui fianchi, ora invece è sceso un po’, aggrappandosi alla schiena come una scimmia, spezzandomi il fiato.

Abbiamo abbandonato l’auto alla Majelletta; ci siamo lasciati indietro asfalto, cartelli e Madonnina al Blockhaus, seguendo come pellegrini il sentiero che striscia dapprima tra i pini mughi puntando dritto al bastione del Monte Focalone. Un sorso d’acqua presso la piccola fonte Acquaviva, ultima sorgente per i prossimi due giorni, e già bisogna affrontare il pendio: passi corti e respiro breve. La luce è quella del tardo mattino, troppo forte per qualsiasi foto. Eppure, nascoste dall’umida ombra delle prime balze di roccia a fianco del sentiero, inaspettate soldanelle del calcare mi fanno fermare di botto. Questa fioritura tardiva in luglio mi offre la rara occasione di poter fotografare la loro delicatissima corolla viola pallido-rugiada, forse più adatta a decorare una bomboniera che i fianchi di una montagna così brulla e selvaggia.

Mi fermo cinque minuti a scattare!” urlo a mio fratello, che decide di procedere a passo lento. “Che ipocrita...”, penso di me quando i minuti diventano un’ora. Solo quando mi accorgo di avere il sole a picco sulla testa - mezzogiorno, decido che le decine di foto scattate ai piccoli fiori sono abbastanza. Salgo a fatica le poche centinaia di metri (inclusi due passaggi delicati su dei nevai) che mi dividono dal bivacco Fusco, sotto il sole, ma godendomi i capolini di tanti fiori che qua e là stanno sbocciando. Proteggendo ben due terzi dell'intera flora italiana e un numero pazzesco di endemismi, il massiccio della Majella è infatti una vera “Mecca” per gli appassionati di flora selvatica.

Mio fratello è lì che mi aspetta paziente, sull’uscio del piccolo edificio giallo e spartano, senza aver ancora toccato cibo. Mi tolgo lo zaino, cambio la maglietta madida e iniziamo a preparare un pasto semplice: pane, olio e pomodoro. Un tocchettino di formaggio pecorino a testa e un sorso di rosso, che ci siamo concessi come unico lusso, travasando una bottiglia di vetro in una di plastica da mezzolitro. Nuvolette bianche, l’Anfiteatro delle Murelle, un’aquila reale lontana e due camosci su una cresta sono il nostro digestivo. Viste le tante ore che ci separano ancora dal tramonto e dall’attività fotografica, decidiamo di riposare un po’ nel bivacco. L’allarme suona alle 16.30 e ci troviamo di fronte ad un’altra montagna: l’arrivo improvviso di un vento freddo e forte, che ha portato con sè delle dense nuvole grigie. Addio sole e estate. Pantaloni lunghi, maglia di pile e giacca a vento: le due-tre ore che ancora ci separano da Monte Amaro, la vetta della Majella, e dal bivacco Pelino costruito sulla sua cima non saranno facili. E infatti, neanche arrivati sul pianoro sommitale del Focalone, il vento fortissimo ci fa desistere dall’impresa. 




Meno male che almeno un camoscio si è regalato improvvisamente alla mia fotocamera. Meglio fermarci qui a fotografare con l’ultima luce e rientrare poi al bivacco per la notte. Ogni tanto, il sole sfugge alla coltre di nubi color cenere, incendiando la Cima Murelle e il commovente Monte Acquaviva (per me la cima più bella del Parco Nazionale della Majella). Inutile tentare di usare il cavalletto: il vento è troppo forte. Posso solo sporgermi sul ripido pendio rivolto ad est, più riparato dal vento, per cercare di fotografare i fiori contro le montagne di sfondo. Devo muovermi con molta attenzione, sia per non calpestare le piante, quasi tutte specie endemiche o molto rare, sia per non precipitare di sotto: sono felice di non essere, per una volta, da solo! La fatica e la pazienza di aver portato me stesso e attrezzatura sino a questa quota e in queste condizioni sono ben presto ripagate dalla scoperta di un’abbondante fioritura di Adonis distorta, mitica Ranunculacea dell’Appennino Centrale, nel ghiaietto di un versante molto acclive. Schiacciato a terra, reflex e grandangolo ben stretti nei guanti, scatto brevi raffiche in apnea, nella speranza di cogliere i pochi istanti in cui il vento lascia in pace le loro corolle dorate. Qua e là scovo altre rarità, come il ranuncolo di Seguier, l'androsace vitaliana e il genepì appenninico: quanto ci sarebbe da fotografare, se il vento lasciasse me e fiori un attimo in pace...



Anche dopo il tramonto, il vento non cessa; le nuvole hanno coperto il massiccio del Gran Sasso, ma non le spiagge del Mare Adriatico, che sembrano distare qualche migliaio di chilometri da quel freddo incredibile. Sulla mia testa, decine di neri gracchi corallini e alpini volano, maestri nel giocare con le correnti d’aria. Davanti a me una pista di lupo che non avevo notato all'andata consacra una lingua di neve. Rintontito dalle raffiche, riscendo al bivacco, dove scopro che io e Matteo non saremo soli quella notte, ma dovremo condividere i pochi metri quadri a disposizione con tre simpatici e loquaci ragazzoni di Pescara. Ci presentiamo sull’uscio del bivacco che è buio. Accendiamo qualche candela e le torce frontali e ci chiudiamo dentro, con il vento che ulula fuori. Tiriamo fuori le rispettive bottiglie di rosso e facciamo un brindisi, iniziando quella che sarà una lunga notte...